Nota alla sentenza Corte Costituzionale 19.02.2024 n. 19 – la sanzione paesaggistica ex art. 83 della L.R. n. 12/2005

Nota alla sentenza Corte Costituzionale 19.02.2024 n. 19 – la sanzione paesaggistica ex art. 83 della L.R. n. 12/2005

Con la recente sentenza n. 19/2024 la Corte costituzionale è stata nuovamente chiamata dal T.A.R. Milano, sezione staccata di Brescia, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 83 della L.R. n. 12/2005 «Legge per il governo del territorio» in riferimento all’art. 117, comma 2 lett. s) Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5 del D.lgs. n. 42/2004 («Codice dei beni e culturali e del paesaggio»).

L’art. 83 L.R. n. 12/2005 – censurato dal giudice a quo nel testo introdotto dall’art. 27, comma 1, L.R. n. 17/2018 – stabilisce che «l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167 del D.lgs. N. 42/2004 , in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tale caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione di cinquecento euro». Giova, infatti, rammentare che nella sua versione originaria si limitava a prevedere che «L’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore a cinquecento euro».

La questione – su cui la Corte si era pronunciata con la recente ordinanza n. 22 del 2023 di inammissibilità per irrilevanza della questione «per avere il giudice a quo […] già deciso i due unici motivi del ricorso, respingendoli entrambi, con la conseguenza che, all’atto della rimessione della questione, la sua potestas iudicandi si era già esaurita» – sorge dall’impugnativa del provvedimento con cui un Comune, dopo avere accertato la compatibilità paesaggistica di opere realizzate senza autorizzazione in un complesso industriale sito in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico, ha irrogato al trasgressore la sanzione pecuniaria prevista all’art. 167, comma 5 del D.lgs. n. 42/2004, calcolando l’importo con il criterio introdotto dall’art. 83 della L.R. n. 12/2005.

Come osservato dal giudice rimettente, in caso di assenza di danno ambientale, la quantificazione della sanzione nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione delle opere e/o lavori abusivi, con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117, secondo comma lett. s) in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»; in particolare, non è prevista dall’art. 167, comma 5 del D.lgs. n. 42/2004 che utilizza quali parametri per la determinazione della sanzione il «danno arrecato» e il «profitto conseguito mediante la trasgressione»[1].

La Corte, dopo aver ricostruito preliminarmente il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento della disciplina posta dall’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004, ha ritenuto fondata la questione di legittimità in quanto «da un lato, la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali costituisce, come si è detto, una sanzione amministrativa pecuniaria riparatoria. D’altro lato, non dubitale che la norma regionale abbia inciso sulla determinazione del quantum di tale sanzione»[2].

Sulla scorta di ciò, nel rammentare che «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” […] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile […]», ha concluso che la «la disciplina sostanziale a cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante l’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e a un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità».

Accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni, la Corte, nell’osservare che il rimettente non ha circoscritto il petitum alle parti dell’art. 83 aggiunte dalla richiamata L.R. n. 17/2018[3], «dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo del territorio), limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento».

 

[1] L’art. 167, comma 5 -rubricato «Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria» – del D.lgs. n. 42/2004 dispone che «Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma».

[2] La Corte non ha ritenuto fondata la difesa regionale secondo cui il legislatore regionale avrebbe completato «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004» poiché la norma regionale non è censurata perché avrebbe arrecato un vulnus alla tutela del paesaggio, ma per violazione della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.. In secondo luogo, «Quanto al dedotto completamento «[del]l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004», è sufficiente osservare che anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono (quindi, nella specie, allo Stato).Né si può ritenere – aderendo a un assunto che traspare dalle difese della Regione – che la norma sanzionatoria in oggetto non vìoli la competenza legislativa esclusiva dello Stato perché avrebbe elevato la tutela dell’ambiente, com’è consentito fare alle Regioni, a certe condizioni, nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale» dal momento che la Regione non può interferire con la disciplina dettata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. In ogni caso, «non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale avrebbe effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, D.lgs. n. 42/2004, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore». Del pari, il giudice delle leggi ha ritenuto priva di fondamento la difesa regionale secondo cui l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie attribuite alla competenza legislativa concorrente delle Regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost. poiché, ove manchi un danno ambientale, la sanzione ricadrebbe nell’ambito della «gestione» dei beni ambientali, rientrante nella materia «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», o nell’ambito della difesa del territorio, riconducibile alla materia «governo del territorio». Sicché, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica in quanto «L’atto sanzionabile, come si è detto, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica. La conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi di abusi suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In ragione di ciò, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione e non ne condiziona l’applicabilità».

[3] «Le sue censure si appuntano sull’introduzione della misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione e, implicitamente, anche sulla previsione della sanzione minima inderogabile di cinquecento euro (presente sia nel testo originario della norma che in quello novellato, con alcune variazioni lessicali), anch’essa difforme rispetto alla disciplina di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali».