Distanze legali tra edifici ex articolo 9 D.M. n. 1444/1968. Nota a Tribunale Ordinario di Pavia sentenza n. 177/2023, pubblicata in data 07.02.2023

Il Tribunale Ordinario di Pavia, con sentenza n. 177/2023, si è pronunciato su un giudizio promosso dallo Studio Legale Bruno Bianchi & Partners volto ad ottenere la condanna della Società convenuta alla demolizione dell’edificio realizzato in violazione al dettato di cui all’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968[1] nonché al relativo risarcimento dei danni patiti e patendi.

La Società resistente, in forza del permesso di costruire rilasciatole dal Comune, aveva, infatti, iniziato i lavori di costruzione di un edificio posto a confine con la proprietà della parte assistita dallo Studio che, a seguito dei rilievi svolti dall’ufficio tecnico del Comune dietro specifica richiesta di parte attrice, risultava essere realizzato in violazione delle distanze stabilite dal citato articolo 9. Il Comune ordinava così la sospensione dei lavori e, annullando parzialmente il permesso di costruire, irrogava alla Società una sanzione pecuniaria sostitutiva dell’ordinaria sanzione demolitoria ex articolo 38 del D.P.R. n. 380/2001[2], contro il cui provvedimento l’attore ricorreva dinanzi al T.A.R. Lombardia per poi agire in sede civile per la rimessione in pristino.

La vicenda è di particolare interesse per l’analisi svolta dalla pronuncia de qua in merito alla possibile interferenza tra le decisioni nei giudizi con parziale identità di parti che non può prescindere dalla situazione sostanziale che rappresenta il fatto dedotto in giudizio: invero, le controversie concernenti le distanze tra costruzioni (o di queste dai confini) sono assoggettate al regime della cd. “doppia tutela”, per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione di norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell’autore dell’attività edilizia illecita (con giurisdizione del G.O.) e, dall’altro, dell’interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell’Amministrazione, con cui tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa, da far valere di fronte al giudice amministrativo.[3]

Un tale distinguo è stato sviluppato in modo costante nella giurisprudenza della Suprema Corte, nel senso che «Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha infatti ad oggetto il controllo di legittimità dell’esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la pubblica amministrazione, ma non può impedire l’esercizio dell’azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici. Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all’annullamento dell’atto concessorio».[4]

La predetta Autorità giudiziaria ha quindi aderito alle tesi difensive proposte e ha ritenuto infondato l’assunto sostenuto dalla difesa di parte convenuta secondo cui la tutela in forma specifica avanzata dall’attore doveva essere dichiarata “inammissibile” o “del tutto infondata” per le scelte operate dalla P.A. o per l’esito del ricorso amministrativo avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento che irrogava al trasgressore la sanzione pecuniaria ex articolo 38 del D.P.R. n. 380/2001 in quanto questi ultimi non ostacolano l’azione civile di danno e di riduzione in pristino promossa dal vicino nei confronti del proprietario confinante per il rispetto delle distanze legali tra costruzioni, dettate dal codice civile e dai regolamenti integrativi.

Ciò posto, nel procedere all’accertamento della relativa violazione, il giudice adito ha ricordato gli ordinari criteri di riparto dell’onere della prova in tema di distanze legali secondo cui il proprietario che ne lamenti la violazione a causa della realizzazione di un’opera su un fondo limitrofo è tenuto a dare prova sia del fatto della costruzione che di quello della dedotta violazione, mentre spetta a chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto provare i fatti su cui si fonda la propria eccezione. Conseguentemente, in mancanza di effettive contestazioni da parte della convenuta sull’applicabilità dell’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968, la documentazione ritualmente prodotta dalle parti e quella legittimamente acquisita dal CTU nel corso degli accertamenti peritali non hanno lasciato dubitare della sussistenza degli elementi costitutivi della domanda di rimessione in pristino.

In proposito, sono state giudicate irrilevanti le osservazioni critiche sulla veridicità della regolarità edilizia del fabbricato di parte attrice in quanto la giurisprudenza è rimasta ferma nel ribadire che le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444 del 1968, articolo 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici.[5]

Inoltre, in accordo con quanto argomentato dalla deducente difesa, il Tribunale – dopo aver ricordato che ai fini della soggezione al rispetto delle distanze di cui all’articolo 9 del D.M. n. 1444 del 1968 devono intendersi tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta – ha concluso che i balconi non potessero essere esclusi dal calcolo delle distanze: solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale (come fregi, sculture in aggetto, mensole, lesene, risalti verticali, gli aggetti) ossia quelle che non assumono alcuna caratteristica strutturale (corpo di fabbrica) o di prolungamento della vita abitativa dell’edificio, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra costruzioni.

In definitiva, il Tribunale Ordinario di Pavia ha accolto il giudizio promosso dallo Studio Legale Bruno Bianchi & Partners ritenendo integrati gli elementi costitutivi della domanda di rimessione in pristino stante la violazione della normativa in materia di distanze fra fabbricati e, per l’effetto, ha ordinato alla Società resistente la rimozione e/o la demolizione di tutte le opere edilizie poste a distanza inferiore a quella legale di dieci metri dalle pareti finestrate del fabbricato di proprietà attorea oltre alla condanna al pagamento di una somma per la perdita patrimoniale subita a causa della limitazione nel godimento del proprio fondo per l’abusiva imposizione di una servitù di mantenimento dell’immobile antistante a una distanza inferiore a quella legale.[6]

 

[1]Come noto l’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968, nel regolare le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone omogenee, al comma 1 n. 2) prevede che «Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti».

[2] Si rammenta che l’articolo 38 del D.P.R. n. 380/2001, rubricato «Interventi eseguiti in base a permesso di costruire annullato», dispone che:

«1. In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.

  1. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36.

2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 01, in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo».

[3] cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 1692/2015; conf. Cons. Stato, Sez. IV, n. 81/2016; conf. Cass. n. 25475/2010.

[4] cfr. Cass., sez. II, n. 21119/2015; conf. Cass., sez. II, n. 9869/2015; Cass., Sez. Un. n. 13673/2014; Cass., sez. II, n. 19650/2013; Cass. Sez. Un. n. 21578/2011.

[5] cfr. Cass., sez. II, n. 2637/2021; Cons. Stato, n. 2086/2017.

[6] Ciò sul presupposto che il danno da limitazione del godimento del proprio fondo per l’abusiva imposizione di una servitù, ove accompagnato alla richiesta di demolizione del fabbricato costruito a distanza illegale, è un danno che necessariamente guarda al “passato” e non al futuro, ossia al tempo intercorso tra l’esecuzione dell’illegittima attività edificatoria e la riduzione in pristino. In tal senso viene anche definito come un danno di carattere “transitorio”, traducendosi in una limitazione temporanea (appunto) al godimento pieno ed esclusivo del diritto di proprietà (art. 832 c.c.).