La prassi della cd. «validazione» alla luce della sentenza n. 217 del 2022 della Corte costituzionale – 1° parte

A seguito del recente pronunciamento della Corte costituzionale – sentenza n. 217 del 2022 – si delineano alcune considerazioni in diritto riferite alla prassi amministrativa nota come «validazione», accolta peraltro da molteplici regolamenti edilizi comunali all’esito dell’adeguamento allo schema-tipo approvato dalla Regione Lombardia con D.G.R. n. 695 del 2018.

 

La Corte costituzionale, difatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una disposizione contenuta in una legge della Regione Veneto, ha fissato dei principi cardine fornendo significativi criteri interpretativi, imprescindibili al fine di inquadrare la posizione da assumere con riguardo a tale istituto.

 

Tramite il presente documento verrà dunque argomentata e condivisa la tesi giuridica che si ritiene di sostenere relativamente alla cd. «validazione».

 

 

  • Disamina della sentenza n. 217 del 2022: le questioni controverse poste all’esame della Corte Costituzionale afferenti alla prassi amministrativa della cd. «validazione»

 

Con la sentenza n. 217 del 2022 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri avverso l’articolo 7 della legge della Regione Veneto n. 19/2021, che ha introdotto l’articolo 93-bis nella legge della Regione Veneto n. 61/1985, per asserito contrasto con l’articolo 117, comma 3 della Costituzione relativamente all’articolo 9-bis, comma 1-bis del D.P.R. n. 380/2001, nonché con gli articoli 3, 117, commi 1, 3 e 7 della Costituzione.

La norma oggetto di impugnazione ha previsto, rispetto a due distinte fattispecie, altrettante definizioni del concetto di stato legittimo degli immobili a fini edilizio-urbanistici. Nello specifico, ai sensi del comma 1 dell’articolo 93-bis «in attuazione dell’articolo 9-bis, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, lo stato legittimo di immobili in proprietà o in disponibilità di soggetti non autori di variazioni non essenziali risalenti ad epoca anteriore al 30 gennaio 1977, data di entrata in vigore della legge 10/1977 e dotati di certificato di abitabilità/agibilità, coincide con l’assetto dell’immobile al quale si riferiscono i predetti certificati, fatta salva l’efficacia di eventuali interventi successivi attestati da validi titoli abilitativi».

Con il successivo comma 2, il legislatore regionale ha disposto che «lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al 1° settembre 1967 è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».

Il ricorso de quo si articola in due ordini di censure: con la prima viene contestato che la disposizione regionale impugnata, contemplando delle definizioni del concetto di stato legittimo degli immobili radicalmente difformi rispetto a quelle previste dall’articolo 9-bis, comma 1-bis, del cd. «Testo Unico Edilizia», esorbiterebbe dai limiti della competenza legislativa concorrente relativa alla materia «governo del territorio», così violando l’articolo 117, terzo comma, della Costituzione. 

Con un secondo motivo di impugnazione, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha fatto valere la violazione sempre dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nella materia «governo del territorio», nonché degli articoli 3, 117, primo e settimo comma, della Costituzione[1].

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale – accolte, con riguardo alla seconda questione, le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa regionale – si è soffermata unicamente sulla disamina, nel merito, del primo gruppo di censure.

In particolare, rispetto al primo comma dell’articolo 93-bis, è stato evidenziato che la sostituzione della documentazione ritenuta idonea dalla disposizione statale ad attestare lo stato legittimo dell’immobile con il certificato di abitabilità o agibilità avrebbe determinato un effetto di sanatoria straordinaria delle irregolarità edilizie disposta a livello regionale; quanto al comma secondo è stata, invece, censurata l’asserita inefficacia di eventuali titoli abilitativi rilasciati prima del 1° settembre 1967 in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati.

Può già anticiparsi che la Corte ha ritenuto fondata la questione prospettata in riferimento all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, dichiarando costituzionalmente illegittima la norma impugnata per contrasto con i principi fondamentali della materia «governo del territorio» dettati dall’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001.

Tanto premesso in termini generali, preme ora approfondire le considerazioni sviluppate in ordine al primo comma della richiamata disposizione regionale, attinente alla prassi amministrativa della cd. «validazione»: si tratta di quel meccanismo volto ad attribuire al certificato di abitabilità la funzione di attestazione della conformità edilizia dell’immobile ed il conseguente riconoscimento di un’efficacia sanante di quanto realizzato in corso d’opera in difformità agli elaborati progettuali approvati (cd. «sanatoria implicita»).

A tale proposito, ad avviso della difesa regionale, il richiamo al certificato di agibilità o abitabilità contenuto nella previsione impugnata non introduceva una deroga alla disciplina statale, ma solo un’opzione specificativa di quanto già contenuto nell’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, il quale attribuisce ad altri atti, pubblici o privati, diversi dal titolo abilitativo, l’idoneità a fondare lo stato legittimo degli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo.

Inoltre, secondo quanto osservato dalla Regione Veneto, prima dell’entrata in vigore della legge n. 10/1977 («Norme per la edificabilità dei suoli»), l’istituto delle variazioni (o varianti) rispetto al progetto non era regolato dalla legge, con la conseguenza che le varianti non essenziali ai progetti già dotati di licenza edilizia venivano realizzate in assenza di ulteriori atti autorizzatori e di esse il Comune si limitava a prendere atto in occasione del sopralluogo previsto dall’articolo 221 del R.D. n. 1265/1934 finalizzato al rilascio del certificato di abitabilità. Di qui, ad avviso della Regione Veneto, l’idoneità delle risultanze di quest’ultimo certificato a dimostrare la consistenza e lo stato legittimo degli immobili secondo il disposto del comma 1 dell’articolo 93-bis citato.

Orbene, per comprendere le ragioni che hanno condotto al pronunciamento della Corte costituzionale, occorre analizzare la disciplina statale di cui all’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, soffermandosi sulla portata che tale norma assume nel riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.

 

  • I principi fondamentali della legislazione statale nella materia «governo del territorio» inderogabili da parte della Regione individuati dalla sentenza n. 217 del 2022

 

La disposizione regionale impugnata, afferendo all’urbanistica e all’edilizia, si ascrive alla materia di legislazione concorrente «governo del territorio», di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nella quale la potestà legislativa spetta alle Regioni «salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».

Relativamente a tale ambito, la Corte costituzionale ha condiviso l’assunto del ricorso che ravvisa un principio fondamentale della materia nell’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, introdotto nel 2020 dal cd. «Decreto Semplificazioni[2]»: il citato articolo dispone che «lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia».

La previsione statale individua, dunque, in termini generali la documentazione idonea ad attestare lo stato legittimo dell’immobile, «definendo i tratti di un paradigma le cui funzioni – comprovate anche dai lavori preparatori – sono quelle di semplificare l’azione amministrativa nel settore edilizio, di agevolare i controlli pubblici sulla regolarità dell’attività edilizio-urbanistica e di assicurare la certezza nella circolazione dei diritti su beni immobili».

La Corte ha sottolineato, inoltre, che «il contenuto prescrittivo di ampio respiro e le finalità perseguite dalla norma depongono a favore della sua qualifica in termini di principio fondamentale della materia, ciò trova conferma altresì nella sua stessa collocazione topografica nell’ambito delle «Disposizioni generali» del Titolo II della Parte I T.U. edilizia, dedicato ai «Titoli abilitativi»: perciò, per il Giudice delle leggi, «non può dubitarsi che i criteri di determinazione dello stato legittimo dell’immobile rappresentino un principio fondamentale della materia, che richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale».

Chiarita la natura della disposizione, la Corte costituzionale ha ritenuto palese la distanza della previsione regionale impugnata dal contenuto della norma di principio, con la quale si pone in contrasto. Invero, «prendendo le mosse dal comma 1 dell’art. 93-bis della L.R. n. 61/1985, deve constatarsi che quest’ultimo associa lo stato legittimo dell’immobile a un documento – il certificato di abitabilità o agibilità – che è ben diverso dal titolo abilitativo edilizio, richiesto dall’art. 9-bis, comma 1-bis, D.P.R. n. 380/2001 sul presupposto della sua obbligatorietà. E il titolo abilitativo era, in effetti, obbligatorio nel periodo e rispetto al tipo di intervento (le variazioni non essenziali), cui si riferisce la disposizione regionale».

Il Giudice costituzionale, infatti, non ha condiviso l’argomentazione sviluppata dalla difesa regionale secondo cui, prima dell’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, le variazioni non essenziali, in quanto non disciplinate, sarebbero state per prassi consentite, fatta salva la semplice ispezione compiuta in vista del rilascio del certificato di abitabilità ex articolo 221 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265: nella pronuncia è stato evidenziato che le variazioni non essenziali de quibus richiedevano il rilascio del titolo abilitativo in quanto, già a far data dal 1° settembre 1967 – in base all’articolo 31 della legge n. 1150 del 1942, come modificato dall’articolo 10 della legge n. 765 del 1967 – chiunque intendesse, nell’ambito dell’intero territorio comunale, eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, era tenuto a richiedere apposita licenza al sindaco.

A quanto sopra la Corte ha aggiunto, peraltro, un’ulteriore considerazione: «se è certamente vero che, in base all’art. 221 del R.D. n. 1265/1934 (vigente nel periodo cui si riferisce la disposizione regionale), il certificato di abitabilità doveva essere rilasciato solo dopo aver verificato che la costruzione fosse stata eseguita in conformità al progetto approvato, nondimeno, questo non giustifica che tale documento possa surrogarsi al titolo abilitativo edilizio».

In definitiva, nella sentenza non viene avallata l’introduzione, nel primo comma della norma regionale censurata, della cd. «validazione» poiché – sostituendo al titolo abilitativo il certificato di agibilità – tale prescrizione si pone in contrasto con quanto previsto dalla disciplina statale di principio, esorbitando i limiti della potestà legislativa concorrente fissati dall’articolo 117, comma terzo della Costituzione.

 

  • I principi sulla potestà regolamentare dei Comuni enucleati dalla sentenza n. 217 del 2022

 

Procedendo con la disamina della sentenza n. 217 del 2022, si osserva che la Corte costituzionale si è pronunciata anche in ordine alla previsione – introdotta dalla disposizione impugnata – di cui al secondo comma dell’articolo 93-bis della legge della Regione Veneto n. 61/1985, a mente del quale «lo stato legittimo di immobili realizzati in zone esterne ai centri abitati e alle zone di espansione previste da eventuali piani regolatori in epoca anteriore al 1° settembre 1967 è attestata dall’assetto dell’edificio realizzato entro quella data e adeguatamente documentato, non assumendo efficacia l’eventuale titolo abilitativo rilasciato anche in attuazione di piani, regolamenti o provvedimenti di carattere generale comunque denominati, di epoca precedente».

 

Nell’affermare che tale norma presenta discrasie con quanto enunciato dall’articolo 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale, sono stati posti in luce significativi aspetti in merito alla potestà regolamentare comunale.

 

Al fine di esporre il ragionamento articolato nella sentenza occorre previamente inquadrare il contesto normativo su cui incide la disposizione de qua: rileva la Corte, invero, che il comma in esame, «nel dissociare lo stato legittimo dell’immobile al titolo abilitativo edilizio, apparentemente si correla al secondo periodo dell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, che esclude, ai fini dello stato legittimo, la necessità di tale documentazione per il periodo in cui il titolo edilizio non era obbligatorio.  E, in effetti, prima della legge n. 765 del 1967, entrata in vigore proprio il 1° settembre 1967, l’art. 31 della legge n. 1150 del 1942 imponeva in via generale la licenza di costruzione solo nei centri abitati e, per i comuni dotati di un piano regolatore generale, nelle zone di espansione esterne a essi».

 

«Sennonché» – prosegue la pronuncia«pure al di fuori dei centri abitati e delle zone di espansione, nonché prima della legge n. 1150 del 1942, la necessità di un titolo abilitativo edilizio veniva, a ben vedere, disposta anche da altre fonti».

 

La Corte costituzionale richiama così alcune fonti primarie per i Comuni ricadenti in zona sismica (segnatamente il regio decreto-legge n. 640/1935 ed il regio decreto-legge n. 2105/1937), nonché – in termini più generali – le fonti regolamentari.

 

Con riferimento a queste ultime, in particolare, si afferma che «l’obbligo di previa autorizzazione alla costruzione poteva essere disposto dal regolamento edilizio comunale, emanato in esecuzione della potestà regolamentare attribuita ai comuni nella materia edilizia dai testi unici della legge comunale e provinciale susseguitisi nel tempo»: vengono citati a tal uopo il regio decreto n. 5921/1889, il regio decreto n. 269/1908 ed il regio decreto n. 148/1915.

 

«Se ne desume, dunque, che, prima della data indicata nel comma 2 della disposizione regionale impugnata, vi erano comuni nei quali era obbligatorio munirsi di un titolo abilitativo edilizio, sia sulla base di fonti primarie riferite a territori sismici, sia sulla base di fonti non primarie, che però attingevano la loro legittimazione dalla fonte primaria attributiva del potere regolamentare», con la conseguenza – seguita la sentenza – che «l’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, là dove si riferisce alla obbligatorietà del titolo, abbraccia certamente anche le citate fonti, il che determina il disallineamento dell’art. 93-bis, comma 2, della legge regionale impugnata […]».

 

Quanto sopra oltre ad evidenziare che «altro è consentire – come fa l’art. 9-bis, comma 1-bis, secondo periodo, t.u. edilizia – l’attestazione semplificata dello stato legittimo per gli immobili realizzati in epoche in cui il titolo non era obbligatorio, altro è negare l’efficacia di titoli abilitativi legittimamente rilasciati».

 

È appena il caso di rilevare che a sostegno di tali conclusioni viene ricordato che pure la giurisprudenza amministrativa «ha ribadito la persistente vigenza dei regolamenti comunali emanati anteriormente all’approvazione della legge urbanistica (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 29 luglio 2019, n. 5330 e, sezione sesta, sentenza 28 luglio 2017, n. 3789)».

 

Da tale percorso argomentativo discende, pertanto, che «anche il comma 2 dell’art. 93-bis compromette le funzioni che la norma statale interposta attribuisce all’attestazione dello stato legittimo, finendo addirittura con l’incidere su titoli abilitativi edilizi pienamente validi ed efficaci».

 

Orbene, il principio che se ne ricava – e su cui occorre porre l’attenzione – è che i regolamenti edilizi comunali, traendo la loro legittimazione dalla fonte primaria, potevano introdurre degli obblighi cogenti di licenza edilizia anche laddove tali obblighi non erano previsti dalla legislazione statale.

[1] In particolare, è stato rilevato che dallo «stato legittimo» dell’edificio, dipende, anche ai fini del rilascio di nuovi titoli edilizi, la qualificazione dell’immobile preesistente in termini di regolarità o abusività, pertanto, nell’introdurre parametri diversi da quelli previsti dalla legge statale per stabilire se un edificio è regolare o abusivo, la disposizione regionale impugnata, introdurrebbe elementi di difformità della normativa urbanistica ed edilizia nel contesto considerato, rispetto alla disciplina vigente nelle altre parti del territorio nazionale.

[2] Segnatamente dall’articolo 10, comma 1, lettera d), numero 1), del D.L. n. 76/2020 («Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale»), convertito, con modificazioni, nella legge n. 120/2020.